Intervista alla regista Rand Beiruty
Wessam, Reem, Mirna, Zahraa, Semav, Mariana, Andrea. Sette adolescenti da poco arrivate in Germania, che si trovano insieme a iniziare una nuova vita a Eberswalde, una città di provincia della Germania dell’est. Nell’arco di cinque anni, le vediamo passare attraverso amicizie, scuola, ricerca di un lavoro e persino il matrimonio: le ragazze si confrontano con le pressioni e i conflitti che derivano dall’essere immigrate e rifugiate, oltre che giovani donne all’interno delle loro famiglie e comunità. Sono loro le protagoniste del film Tell Them About Us, documentario che verrà presentato a Bologna lunedì 17 giugno in anteprima nazionale, all’interno del programma del Biografilm festival. L’evento è a cura della cooperativa Arca di Noè, partner del Consorzio l’Arcolaio.
Per realizzare il film, la regista giordana Rand Beiruty, che esordisce con la sua opera prima, ha tenuto laboratori di scrittura, musica e recitazione: uno spazio protetto in cui le ragazze hanno potuto riflettere sul loro vissuto. Sono state loro stesse a scrivere alcune scene, e poi interpretarle di fronte alla camera: il documentario ha il sapore del racconto di formazione, che contiene sequenze di sogni in cui le giovani immaginano giocosamente il futuro, per elaborare esperienze passate dolorose.
“Tutto è nato nel centro comunitario di Eberswalde” racconta Rand Beiruty, che oltre ad essere regista è anche scrittrice e co-fondatrice della società di produzione Shaghab Films.
“L’ho conosciuto grazie a una mia amica, l’attrice e regista Mihaela Dragan. Mi hanno invitato a facilitare laboratori teatrali con le ragazze migranti e rifugiate: ho accettato, immaginando le riprese di questi workshop come una mia forma di ricerca. All’epoca avevo iniziato un dottorato sul campo, incentrato sul tema della rappresentazione dei rifugiati nei film di non-fiction: la mia intenzione era quella di trovare il modo di raccontare le storie con le persone, piuttosto che semplicemente sulle persone”.
Come si sono svolti questi laboratori, da cui poi è nato il film?
“I workshop sono stati la base che ha permesso di includere la prospettiva delle ragazze nel mondo del film, permettendomi di comprendere più a fondo le loro speranze, i loro sogni e le loro sfide. Ho pensato che così facendo avrei evitato di sensazionalizzare la loro vita, riorientando invece l’attenzione verso il contesto più ampio che le circonda. Man mano che entravo in confidenza con loro, ho avuto accesso alle loro case e alle loro famiglie per filmare: subito mi è apparso evidente quanto fosse prezioso includere questi aspetti personali nel documentario. Questa consapevolezza mi ha fatto cambiare prospettiva: ho capito che, includendo nel film dei frammenti delle loro storie personali, avrei offerto una rappresentazione più olistica, sottolineando l’importanza dei loro legami interpersonali e del più ampio contesto sociale che ha plasmato le loro esperienze”.
Come hai scelto le sette ragazze protagoniste? E in che modo la loro storia si collega alla tua storia personale?
“La scelta delle sette ragazze è avvenuta in modo organico, perché non volevo fare pressione su nessuno per partecipare ai laboratori o alle riprese. Le ragazze e io condividiamo una lingua e una cultura comuni, ma le nostre differenze di età, background e stile di vita emergevano comunque per via della posizione privilegiata che ricoprivo come dottoranda e regista. Nonostante queste differenze, sono entrata in profonda sintonia con le loro sfide e aspirazioni: quando avevo la loro età, anche io ero alle prese con speranze, sogni e domande molto simili. Questo legame condiviso è diventato la forza motrice che mi ha spinto a realizzare il film”.
Il documentario mostra le sfide tipiche dell’adolescenza, ma anche le complessità dovute all’adattamento a una nuova cultura e a un nuovo ambiente. Come hai fatto a tenere insieme questi due aspetti?
“Sebbene le ragazze affrontino molte sfide dovute al fatto di essere rifugiate e migranti che cercano di crearsi un posto nel loro nuovo Paese, non volevo concentrarmi solo su questo aspetto. Non volevo che questo definisse la loro identità in toto. Fin dall’inizio ho avuto chiaro che non volevo fare un film solo per un pubblico tedesco o europeo, che si limitasse a ‘guardare’ la vita delle ragazze, inquadrandola solo in termini di emarginazione. Volevo invece celebrare le loro voci, invitandole a essere protagoniste, e a dare forma al messaggio del film insieme a me. Questo approccio mi ha permesso di presentare le loro esperienze quotidiane di adolescenti, accanto alle complessità dell’adattamento a una nuova cultura, creando una narrazione più ricca di sfumature”.
In Italia si dice che “l’unione fa la forza”. Nel film, queste ragazze sembrano superare insieme difficoltà come la migrazione, l’adattamento culturale e la pressione esterna all’assimilazione. Perché è importante superare la solitudine ed essere unite?
“In fondo, Tell them about us parla di amicizia e comunità, mostrando come la gioia e il semplice atto di sognare possano servire come potenti forme di resistenza. Incontrandosi, le ragazze condividono le loro esperienze, si supportano l’un l’altra e costruiscono un senso di appartenenza nel loro nuovo ambiente, rafforzando la resilienza e la speranza. Quello che era iniziato come una serie di laboratori si è evoluto in un processo di narrazione collaborativa, come forma di guarigione collettiva e di empowerment. Questo viaggio ci ha permesso di trovare connessioni più profonde e di ritrarre vite che spesso vengono semplificate e vittimizzate. Per me, il motto ‘l’unione fa la forza’ nel cinema è una testimonianza del potere delle storie condivise, un viaggio di scoperta sia per i partecipanti che per me stessa”.
Quali sono le principali speranze, sogni e paure di queste ragazze? Come immaginano il loro futuro?
“C’è una parte del film che mi tocca profondamente. In uno dei workshop, Zahraa risponde alla domanda su dove si vede tra qualche anno: parla del desiderio di vivere in uno spazio tutto suo, con un’amaca, un gatto e magari il ragazzo dei suoi sogni. Conclude dicendo che vuole solo una vita semplice e felice. È un passaggio che riflette le speranze e i sogni di tutte le ragazze: tutte vogliono vivere una vita dettando loro le regole, e mantenendo la loro integrità e il loro senso di appartenenza. Di fatto, vogliono semplicemente una vita stabile e appagante, dove poter perseguire le proprie passioni, costruire relazioni significative e sentirsi sicure. I loro sogni sono ancorati al desiderio di un’esistenza serena e autodeterminata”.