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Ricominciare in un nuovo paese quando si è anziani

“Avete fatto colazione?” La domanda arriva immediata, neanche il tempo di varcare il portone di casa. A farla è O., 65 anni, gli occhi castani contornati dal velo scuro, che contrasta con la felpa blu elettrico e i pantaloni a righe colorate. Ha la voce dolce e i modi delicati. Anche se le diciamo che in effetti tutti abbiamo già fatto colazione, lei apparecchia comunque la tavola con un vassoio di biscotti e serve il tè. “Sedetevi, mettetevi comodi”, dice indicando il grande divano che si estende lungo la parete della sala. Intanto due uccellini in una gabbietta dal lato opposto della stanza, uno bianco e uno blu, ci danno il benvenuto con i loro cinguettii e il battito di ali. Siamo a Casa Lenin, una struttura gestita dalla cooperativa Arca di Noè nell’ambito del Progetto SAI del Comune di Bologna, coordinato da ASP Città di Bologna.

O. è arrivata dall’Afghanistan nell’agosto del 2021, quando i Talebani hanno ripreso il potere dopo il ritiro dei soldati da parte degli Stati Uniti. “La prima volta che mi hanno detto che i Talebani sarebbero tornati, pensavo che fosse uno scherzo”, racconta. “Poi da un giorno all’altro la nostra vita è cambiata”. A quel tempo O. lavorava all’ambasciata italiana di Kabul, e così è stata inserita in un corridoio umanitario insieme al marito G. e ai due figli, N. e S. Due giorni dopo l’arrivo dei Talebani, sono riusciti a prendere un volo d’emergenza che li ha portati direttamente all’aeroporto di Fiumicino, a Roma. A Kabul hanno lasciato i tre figli più grandi con le loro famiglie: “Ogni giorno penso a come trovare un modo per portarli qui con noi”, dice O. “L’Afghanistan è un posto pericoloso, non c’è lavoro, non c’è futuro”.

Il paese era già da anni impoverito dalla pandemia, dalla siccità e dalla lunga guerra, ma da quando i Talebani hanno ripreso il potere è in corso una grave crisi economica e umanitaria. Non solo: la popolazione sta subendo continue limitazioni ai diritti e alle libertà personali, che colpiscono in particolare le donne. Oggi le donne afghane non possono lavorare né studiare oltre i 12 anni, non possono frequentare molti luoghi pubblici, guidare, né percorrere lunghe distanze senza un uomo. In più sono obbligate a indossare il burqa, la copertura integrale di tutto il corpo, volto compreso. Sono restrizioni simili a quelle che c’erano già durante il primo regime talebano, durato dal 1996 al 2001 e considerato uno dei più rigidi e repressivi al mondo.

Durante questo periodo, O. era scappata in Pakistan con la sua famiglia. È stata l’unica volta che è uscita dall’Afghanistan, prima di arrivare in Italia. “La vita qui è molto meglio, in confronto a Kabul”, afferma. “Là era molto pericoloso, c’erano continui attacchi, per strada dovevi fare molta attenzione”. Una volta in Italia, la famiglia ha fatto diversi spostamenti: in un primo tempo è rimasta a Piacenza, poi è stata accolta in una struttura sull’Appennino emiliano, dove ha vissuto con altri rifugiati afghani. Dopo sei mesi si è trasferita a Pianoro, dove abitava con un’altra famiglia, infine dopo sette mesi è arrivata a Bologna, in Casa Lenin.

“Nella presa in carico di persone non più giovani, la difficoltà principale è il raggiungimento di una reale autonomia”, spiega Marta Torcinovich, operatrice della cooperativa Arca Di Noè che sta seguendo l’accoglienza di questo nucleo famigliare. “Spesso si tratta di persone con un basso livello di scolarizzazione, che non hanno competenze digitali e che non possono mettersi a cercare lavoro, per via delle loro condizioni fisiche”. Nonostante le difficoltà, l’obiettivo del Progetto SAI è quello di accompagnare le persone all’orientamento in città, e supportarle in diversi ambiti: linguistico, lavorativo, sociale, sanitario. “Quando i signori hanno una visita, li andiamo a prendere a casa e li accompagniamo nella struttura sanitaria, li aiutiamo a capire i prossimi passi e a tenere i referti in ordine. Il lavoro di accompagnamento è molto corposo”.

O. in realtà non sa di preciso quanti anni ha. “Ai nostri tempi si nasceva in casa e non si teneva memoria del giorno esatto”, spiega. “Quando nascevano un po’ di bambini, si andava tutti insieme a registrarli e come data si sceglieva il primo gennaio per tutti”. O. sa che la sua età è di circa 65 anni, mentre il marito ne ha circa 76. “Per due persone anziane come noi, ricominciare non è facile”, racconta. “Parlare l’italiano è importante per essere indipendenti, per spostarsi in città, usare l’autobus, andare al mercato… Ma sarà per l’età, sarà che abbiamo tanti pensieri, per noi è molto difficile impararlo. In più non lavoriamo, quindi facciamo fatica a conoscere nuove persone”.

Per fare nuove conoscenze, O. frequenta tutti i sabati il centro CoCo Lab, uno spazio di socializzazione dove insieme ad altre donne migranti sperimenta varie attività: ricamo, cucina, ginnastica… “Veniamo da tanti paesi diversi: Tunisia, Ucraina, Afghanistan, Pakistan”, dice. “Tra di noi parliamo un po’ in italiano, e usiamo molto i gesti”, ride. Mentre O. chiacchiera, il marito rimane vicino a lei silenzioso, con la coppola bianca abbassata sugli occhi, le gambe incrociate e le mani appoggiate in grembo. Interviene solo per raccontare che un tempo faceva il muratore e il facchino, ma tanti anni fa ha avuto un incidente e ora non può più lavorare, perché ha problemi alle gambe.

“Per fortuna ci sono i nostri figli”, dicono. Il più grande è N., 24 anni. Quando è arrivato in Italia aveva già il diploma di maturità, ma farsi riconoscere il titolo afghano è molto difficile, così ha dovuto rifare la terza media. Poi si è messo a lavorare, prima come scaffalista in un supermercato, poi come mulettista. Adesso sta cercando un nuovo impiego. Anche S., 15 anni, ha preso il diploma della scuola media e ora studia alle superiori. Ha anche iniziato a frequentare una scuola di pugilato, e ha fatto i primi match sul ring.

“La vita qui in Italia è molto meglio che in Afghanistan”, conclude O. “Certo, non è stato facile: non è che siamo arrivati qui e tutto era perfetto. Il percorso è lungo, ci sono momenti belli e momenti difficili. Ma in generale stiamo bene: siamo grati di essere insieme, e al sicuro”.

Photo by Sohaib Ghyasi on Unsplash

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