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Orientare a un lavoro, un primo passo per l’integrazione

Trovare un lavoro è una priorità che i richiedenti asilo manifestano fin dai primi giorni in Italia. Da subito la grande maggioranza vorrebbe darsi da fare e si attiva nella ricerca di un impiego per poter iniziare un percorso di inserimento che possa poggiare anche su un’autonomia economica, un primo passo fondamentale verso l’integrazione. Come immaginabile, però, non è facile raggiungere questo obiettivo in tempi brevi per chi arriva da esperienze di vita lontane, da contesti lavorativi molto diversi da quelli occidentali e, soprattutto, deve ancora vedere riconosciuto il diritto alla protezione internazionale nel nostro Paese.

Il sistema SPRAR prevede un servizio specialistico, già nella fase dell’accoglienza, dedicato a costruire percorsi di formazione, potenziare la ricerca attiva del lavoro, dare opportunità di formazione-lavoro. Nello SPRAR metropolitano bolognese questo servizio è svolto da due associazioni temporanee di cooperative, coordinate rispettivamente dalle cooperative Abantu e Camelot.

Una valutazione caso per caso per un percorso ad hoc

Abbiamo chiesto a Sara Bruni, coordinatrice nell’Area Lavoro di coop. Abantu, come funziona il servizio e quali sono le sue particolarità. “La segnalazione di persone che possono iniziare un percorso lavorativo viene fatta ad ASP dagli operatori dell’accoglienza a seguito di colloqui condotti con l’ausilio di strumenti specifici – spiega Sara –. A seguito della prima raccolta di informazioni, i diversi casi vengono inviati direttamente agli operatori dell’Area Lavoro, che attraverso colloqui strutturati e approfonditi con i beneficiari riescono a valutare le singole situazioni, quali sono le competenze, le risorse individuali, il livello di conoscenza dell’italiano, i desideri di ciascuno, incrociandoli poi con le opportunità che il territorio può offrire in quel momento. Di solito entro un paio di mesi l’Area Lavoro è in grado di fare una proposta di percorso al richiedente asilo”.

Gli strumenti giusti per iniziare un percorso

Non si deve immaginare l’Area Lavoro SPRAR come un centro per l’impiego o un’agenzia per il lavoro ma piuttosto come un servizio di orientamento e di consulenza. “Lavoriamo principalmente su tre tipi di proposte: – prosegue Sara Bruni – la formazione tramite i corsi offerti dal territorio o organizzati direttamente da noi insieme ai centri di formazione; l’inserimento in tirocini formativi finanziati dal Progetto SPRAR o dalle singole aziende in cui essi si svolgono; l’inserimento all’interno di un percorso individualizzato di ricerca del lavoro.

Finora sono state circa 200, sulle oltre 800 inserite complessivamente nel Sistema SPRAR dal 2017, le persone prese in carico dal nostro servizio. Si tratta sia di richiedenti protezione internazionale, quindi persone ancora in attesa della risposta della Commissione Territoriale alla propria richiesta di protezione internazionale, ma anche di persone già titolari di protezione. Solitamente la segnalazione degli operatori arriva quando il soggetto dimostra di avere un livello di conoscenza della lingua italiana almeno discreto ed è già accolto da un tempo sufficiente per aver avviato o terminato altre tipologie di progetti di integrazione, talvolta anche di volontariato”.

Il difficile incontro tra domanda e offerta

Fare incontrare la domanda di questo tipo di utenti con le offerte del nostro mercato del lavoro è molto complesso. “Nella maggioranza dei casi, i richiedenti asilo sono persone con bassa scolarizzazione, rari sono coloro che hanno fatto studi superiori o addirittura universitari – racconta Sara –. Molto spesso non sanno usare il computer, o comunque non con la competenza necessaria per ricercare un lavoro. Spesso sono persone che hanno lavorato come artigiani nel proprio Paese d’origine, o sono stati impegnati in lavori manuali che in Italia non esistono più, che vengono svolti in maniera diversa o per i quali viene richiesta un’istruzione specifica, con un diploma o un attestato. Ad esempio, molti hanno avuto esperienza nel loro Paese di origine come saldatori, carrozzieri, meccanici, falegnami, e vorrebbero poter fare quei mestieri anche in Italia. Ma svolgere certi lavori in un Paese subsahariano può essere molto diverso dal farlo in Italia: è molto difficile per una persona che magari abbia lavorato come saldatore per 15 anni, ad esempio in Nigeria, farsi assumere in un’azienda italiana che correttamente richiede il possesso di un patentino, un livello più alto di istruzione o la necessità di farsi ben comprendere dai colleghi. Inoltre, il diploma di scuola superiore o istituto professionale o tecnico è richiesto da molte aziende, e comunque è necessario anche solo per poter accedere a corsi professionalizzanti”.

La conoscenza della lingua, ma anche una comprensione di base del contesto in cui si sta provando a inserirsi, sono i requisiti fondamentali per cominciare. “I casi più difficili da seguire sono quelli dei nuclei familiari, spesso monogenitoriali, con donne con bimbi piccoli – aggiunge Sara Bruni –. Si tratta in genere di persone non scolarizzate, che hanno difficoltà a imparare l’italiano e che soprattutto hanno limitazioni orarie: in questi casi facciamo molta attenzione a trovare dei tirocini e delle possibilità di inserimento che riescano a conciliarsi con gli impegni di accudimento e cura”.

Il tirocinio, opportunità preziosa e fondamentale

I tirocini sono sicuramente una delle risposte migliori che si possono dare per avviare un cammino, più o meno lungo, al fine di accrescere le risorse personali e professionali e il numero di esperienze lavorative effettivamente spendibili all’interno del mercato del lavoro italiano. Il tirocinio permette di poter entrare in relazione diretta con il mondo del lavoro, di capirne le dinamiche e di farsi conoscere. “Il tirocinio serve proprio a superare gli ostacoli di partenza, perché se una persona ha le capacità, pur non avendo le certificazioni su carta che le comprovano, riesce ad entrare in azienda anche con altre modalità. Ci sono stati casi in cui i tirocini di persone che si sono impegnate hanno portato o a un’assunzione o, più spesso, a una proroga del tirocinio. Capita anche che le aziende che si sono trovate bene con il tirocinante paghino direttamente il conseguimento di patentini o altre certificazioni o l’iscrizione a corsi di specializzazione”.

Al fine di aumentare le possibilità di formazione e gli ambiti professionali, l’area lavoro svolge una continua attività di ricerca di aziende ed enti sempre nuovi e diversi per l’attivazione di tirocini formativi. Le ricerche vengono svolte sia in base alle richieste di mano d’opera del mercato del lavoro locale, che in base alle caratteristiche e competenze professionali degli utenti in carico.

Ma quali sono, e come funzionano, i tirocini? Tra le opportunità offerte ci sono i tirocini di tipo C, dedicati appositamente ai richiedenti asilo e ai rifugiati, mentre i tirocini di tipo D si rivolgono a persone prese in carico da servizi specifici, come ad esempio centri di salute mentale o il Sert. I tirocini, secondo quanto prevede la legge regionale, devono essere attivati coinvolgendo l’ente promotore (ASP nel nostro caso), l’ente o l’azienda ospitante, il tirocinante e l’ente certificatore, che verifica l’andamento del tirocinio ed effettua una valutazione insieme all’ente ospitante e al tirocinante al termine del percorso. Per un tirocinio full time (da 26 a 40 ore settimanali) l’indennità è di 450 euro, che è il minimo definito dalla legge regionale. Per i tirocini part-time (da 13 a 25 ore) è di 200 euro, che vengono pagati da ASP tramite il sistema SPRAR, che si fa carico delle prime tre mensilità, o anche dall’azienda stessa; nel caso vengano poi prorogati dalle aziende, le spese successive sono comunque a carico delle aziende stesse che, qualora lo vogliano, possono anche aumentare la cifra a loro discrezione.

I lavori a cui aspirano i richiedenti asilo

“Le qualifiche dei tirocini più richieste tra gli utenti del nostro servizio sono quelle di operatore della ristorazione, lavapiatti, aiuto cuoco, cameriere, operatore agricolo, addetto alle pulizie, operatore di magazzino merci – elenca Sara Bruni –. Un settore molto richiesto è quello della falegnameria, perché molti hanno fatto i falegnami nel loro Paese di origine: qui purtroppo non è un lavoro così diffuso e, soprattutto, è svolto da artigiani che spesso non hanno tempo per seguire un tirocinante, soprattutto se non padroneggia bene l’italiano. Nonostante questa difficoltà, qualche aspirante falegname siamo riusciti a inserirlo”.

Il delicato ruolo dell’operatore

L’operatore dell’Area Lavoro, che prende in carico la persona e la segue dal momento della segnalazione all’uscita dall’accoglienza, ha un ruolo di grande complessità, poiché si pone come interlocutore non solo per gli utenti, ma anche per gli enti di formazione, le aziende e i soggetti coinvolti nei percorsi di formazione e tirocinio che vengono attivati. In questo ruolo sono infatti fondamentali le capacità di mediazione sociale. “Tra i nostri compiti c’è quello di spiegare ai responsabili delle aziende quali possono essere le differenze culturali che spesso portano a dei fraintendimenti e a delle problematiche. Un esempio tra tutti, ma che capita di frequente: il non avvertire quando non si va al lavoro o arrivare in ritardo senza avvisare. Il comportamento adeguato deve essere interiorizzato da parte del tirocinante, spesso con una certa fatica. Perché chi viene da una situazione in cui non ha mai avuto una situazione lavorativa regolata, con contratto, con esplicitati diritti, doveri e norme comportamentali, ma ha sempre vissuto situazioni lavorative non chiare, non continuative o addirittura di semi-schiavitù, rischia di incontrare difficoltà anche solamente a ottimizzare e gestire il tempo per avvisare preventivamente. Seguire una persona per noi vuol dire anche incontrarla o sentirla spesso al telefono per capire le sue richieste, le sue difficoltà, condividerne la frustrazione quando non trova degli sbocchi.

Ci occupiamo poi delle questioni amministrative, del tutoraggio per i tirocini e anche per i corsi di formazione. I più richiesti tra i corsi sono quelli di informatica, idraulica, ristorazione, cure estetiche, logistica e magazzino, sartoria, elettricista. Si tratta di corsi di 100/120 ore che non fanno conseguire una qualifica, ma servono per un primo orientamento.

Il lavoro stabile arriva dopo la fase dell’accoglienza

È molto raro comunque, come si anticipava, che un richiedente asilo riesca a trovare un lavoro stabile mentre si trova ancora nella fase dell’accoglienza. Mentre i contratti di lavoro saltuari (a chiamata, di brevi periodi) si trovano facilmente anche durante l’accoglienza, è la stabilizzazione del contratto che fatica ad esserci durante i 6 mesi/1 anno di accoglienza SPRAR.

Quando capita avviene in una fase successiva dell’integrazione. Tra l’altro, per le aziende è molto problematico fare un contratto a persone che non sanno se potranno restare in Italia poiché la decisione sulla loro domanda di protezione non è ancora stata presa o non è definitiva. “Sappiamo di persone che, una vola uscite dall’accoglienza, sono riuscite ad ottenere un contratto di lavoro, ma è raro che questo succeda quando la persona è ancora all’interno del sistema SPRAR. Trovare un lavoro stabile è già un’impresa non semplice per una persona di madrelingua italiana, con un buon livello di istruzione, ottima conoscenza del territorio in cui vive e solide reti familiari e relazionali: le probabilità di trovare lavoro stabilmente nell’arco di 1 anno di accoglienza SPRAR per un richiedente asilo con le caratteristiche di fragilità dei nostri utenti, in Italia da poco tempo, sono davvero poche. Per questa ragione è necessario capire che quel periodo serve come avviamento, orientamento – sottolinea Sara –. Il tirocinio, ad esempio, serve fondamentalmente per far capire come funziona il mondo del lavoro in Italia, per iniziare a inserirsi, per offrire un primo assaggio della realtà lavorativa, farsi dei contatti. Il nostro lavoro consiste nel gettare le basi solide perché chi esce dall’accoglienza possa camminare sulle proprie gambe e avere gli strumenti per continuare a perseguire i propri obiettivi di autonomia. I frutti veri del nostro lavoro si possono vedere dopo l’accoglienza”.

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