C’è un’alba chiarissima sul mare piatto, l’orizzonte perfetto interrotto solo da un puntino in movimento. Rahma indossa una camicia e un velo turchesi, contro cui stringe la sua bambina. Tutto intorno ci sono più di quaranta persone ammassate con lei sulla barca, tra cui sei bambini. Pochi minuti dopo, quel puntino che vedeva lontano assume i contorni della salvezza: è una nave che sta arrivando a prenderli. Le persone urlano, chiedono aiuto, un ragazzo prende in braccio la sua bambina e la solleva verso il cielo, mentre lei si sbraccia per farsi vedere a distanza. “Era da tre giorni che eravamo su quella barca, avevamo finito il cibo e l’acqua, pensavamo che saremmo morti”, racconta Rahma con la voce emozionata. “In quel momento, siamo nati di nuovo”.
Rahma, 26 anni, è arrivata in Italia dalla Tunisia ad ottobre del 2023 insieme a suo marito Mohamed e alle sue figlie Farah, che allora aveva un anno, e Mira, che aveva solo tre mesi. Sapeva che il viaggio era molto pericoloso, ma per lei quella era una scelta quasi obbligata: “Mia figlia Farah ha un problema dalla nascita, le sue ossa si rompono anche senza grossi urti”, racconta. Appena nata le si sono fratturate le clavicole, a due mesi la gamba. “Abbiamo speso molti soldi per visite ed esami, ma i medici non ci hanno saputo dire cosa avesse”, spiega Rahma, che aveva già perso una prima figlia, morta a un mese per cause ignote. “È stato terribile”, racconta Rahma. “Quando è nata Farah, non abbiamo lasciato che venisse ricoverata, perché non ci fidavamo più. Ho chiesto al dottore: ‘Se sua figlia avesse questo problema, lei cosa farebbe?’ Lui mi ha risposto: ‘Io me ne andrei’”.
A quel punto Mohamed e Rahma provano a fare domanda per il permesso di soggiorno in Italia, presentando i documenti sanitari della bambina, ma non riescono a ottenerlo. Scelgono allora di attraversare il mare, per provare ad arrivare a Lampedusa. “Abbiamo venduto tutte le nostre cose, i nostri vestiti, i nostri mobili, per pagarci il viaggio”, dice Mohamed. “Prima di partire siamo stati rincorsi dalla polizia, abbiamo dovuto scappare per tre chilometri con le bambine in braccio. Eravamo stremati. Quando siamo saliti sulla barca avevamo con noi il minimo indispensabile: i certificati medici, qualche vestito per le piccole e il latte. Nient’altro”.
E poi c’è stata la traversata, tre giorni in mezzo al mare, sotto il sole, senza bere e senza mangiare. “Farah ha pianto tutto il tempo”, racconta Rahma. “Le altre persone avevano paura che la polizia ci scoprisse, ma io non sapevo come farla smettere. L’acqua ci schizzava, eravamo pressati l’uno contro l’altra”. Nel frattempo la barca aveva perso l’orientamento, e stava per finire il carburante. In tanti piangevano, altri urlavano. “Non ho mai pensato di aver sbagliato a salire su quella barca, neanche quando ho creduto di morire”, dice Rahma. “L’abbiamo fatto per Farah: avevamo già perso una bambina, non potevamo accettare che succedesse di nuovo. Ho pensato: se oggi moriamo, moriamo tutti insieme”.
Quando sono arrivati i soccorsi, Mohamed e Rahma finalmente sentono che la vita può ricominciare. “Ci hanno dato acqua, cibo, delle coperte”, ricorda Mohamed. “A Lampedusa ci hanno chiesto cos’avesse Farah, abbiamo consegnato tutti i documenti. Le hanno fatto fare una serie di esami, poi ci hanno detto che saremmo andati a Bologna, perché lì c’è il miglior ospedale per i bambini”.
L’ospedale è il Policlinico Sant’Orsola, dove Farah è stata presa in carico per fare diversi controlli specialistici, e poi iniziare la terapia. Nel frattempo, la cooperativa sociale Open Group, parte del Consorzio L’Arcolaio, si è occupata dell’accoglienza della famiglia all’interno del Progetto SAI del Comune di Bologna, coordinato da ASP Città di Bologna: i quattro sono stati accolti in un appartamento in zona San Donato. Farah ha poi iniziato la fisioterapia due volte la settimana, mentre una logopedista viene a casa una volta alla settimana per aiutarla a relazionarsi con il cibo.
“Ci troviamo benissimo, i nostri operatori per noi sono come la nostra famiglia”, racconta Rahma. “C’è Costanza, che ci aiuta per ogni necessità, e Roberto, che ci sta insegnando l’italiano: senza di loro non avremmo potuto fare quello che stiamo facendo”.
Non solo, Rahma e Mohamed stanno costruendo una rete di relazioni nel proprio quartiere, grazie alle attività che stanno portando avanti: la palestra, le attività per le bambine, il volontariato. Tutte le settimane vanno alle Cucine popolari, dove preparano i pasti, tagliano le verdure, servono ai tavoli, puliscono. Ma soprattutto, hanno un luogo familiare dove passare tempo insieme. “Mi piace tanto andare alle Cucine: lì impari le ricette, scopri i nomi degli ingredienti in italiano, conosci tante persone”.
Mohamed e Rahma hanno fatto amicizia anche con i loro vicini di casa e con altre famiglie al parco giochi, oltre che con alcune volontarie che prestano servizio in ospedale. “Prima di partire pensavamo che sarebbe stata dura inserirsi in Italia, invece siamo stati molto fortunati”, dice Rahma.
La sfida oggi è la ricerca del lavoro: Rahma e Mohamed sono entrambi seguiti da un tutor dell’area lavoro del Progetto SAI. Lei vorrebbe iniziare a sperimentarsi come cuoca, perché adora cucinare, mentre lui sta per cominciare due corsi di formazione di informatica e per diventare magazziniere, e vorrebbe prendere il patentino per guidare il muletto. “In Tunisia lavoravo come autista dei camion, ma la mia patente non è valida qui”, spiega.
Nel frattempo, a settembre Farah e Mira hanno iniziato a frequentare l’asilo nido. “Farah ha un grande senso della musica, le piace tanto, mentre Mira ama mangiare e giocare con i trucchi della mamma”, ride Rahma, mentre accarezza le due bambine seduta sul divano nel suo salotto. “Quando Farah starà meglio vorremmo tornare in Tunisia a trovare i nostri parenti. Ma per vivere vogliamo rimanere qui in Italia: ci sono molte più opportunità, per noi ma soprattutto per le nostre figlie”.