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“Se non c’è la relazione manca tutto”: il corso per assistenti familiari a domicilio del progetto SAI

di Alice Facchini

 

“Se una persona non parla, ha gli occhi chiusi o fissa il soffitto, non vuol dire che non capisca. Dobbiamo avere consapevolezza di questo e puntare sulla relazione: possiamo parlarle, sorriderle o guardarla negli occhi”. Il docente è in piedi di fianco alla cattedra, mentre spiega gesticola e mima le azioni che nel frattempo descrive a parole. Nell’aula vicino a lui c’è una carrozzina e un letto con i sollevatori, simile a quelli che troviamo negli ospedali o nelle case di riposo. Davanti, alcune donne ascoltano attente e prendono appunti. Sono le beneficiarie del corso per assistenti familiari a domicilio organizzato dall’area formazione al lavoro del progetto SAI insieme ad ASP Città di Bologna, realizzato dall’ente di formazione Seneca.

“Anche i movimenti che ci sembrano più scontati possono essere dei grandi ostacoli per chi ha un corpo che non risponde”, spiega il formatore di Seneca Antonello Mazzuca, mentre si posiziona di fianco al letto. “La persona da curare non è un attore passivo: è importante farla partecipare il più possibile, questo la fa sentire importante e ancora utile”. A questo punto si stende sul materasso e ripercorre i movimenti necessari a girarsi su un fianco, sollevare il busto, alzarsi in piedi. “Non dobbiamo avere aspettative troppo alte: se chiediamo a un anziano di sollevarsi da solo e lui non ci riesce, questo può generare frustrazione e rabbia”.

Il corso per assistenti familiari è iniziato il 14 novembre 2023: a partecipare ci sono nove donne rifugiate inserite all’interno del progetto SAI. La formazione prevede 60 ore di teoria, più 80 di stage all’interno di una delle strutture di ASP Città di Bologna: l’obiettivo è non solo rafforzare le competenze tecniche necessarie per diventare assistenti familiari di persone non autosufficienti, ma anche sviluppare le capacità empatiche e di comunicazione. Durante gli incontri si impara, oltre a somministrare farmaci o a curare l’igiene della persona, anche a instaurare un legame di fiducia e rispetto reciproco tra chi assiste e chi è assistito.

“Come ti sentiresti a spogliarti davanti a un estraneo? Cosa proveresti se dovessi fare i tuoi bisogni con qualcuno nella stanza?”, chiede Antonello Mazzuca. “Sono tutte situazioni che le persone non autosufficienti vivono. E che generano emozioni come il pudore e la vergogna”. Parla lentamente, scandendo bene le frasi. Nella spiegazione usa anche parole “difficili” come sollevatore, sagomato, comoda, pappagallo, catetere, mutanda elastica… Termini tecnici, che però sono resi accessibili quando il docente mostra l’oggetto corrispondente e ne spiega il funzionamento. “Seguire la lezione in italiano non è facile”, racconta Gulsen, 50 anni, che viene dalla Turchia, non ha mai fatto l’assistente familiare ma in passato si è occupata per sei mesi di sua madre allettata. “Da quando ho iniziato il corso, ho migliorato tanto con la lingua”.

La formazione teorica, infatti, è cominciata con alcune lezioni di italiano specialistico per il lavoro. La seconda fase consiste in una formazione più tecnica: come preparare i pasti, come gestire le faccende di casa, come relazionarsi con le persone assistite e i loro familiari, come assistere le persone affette da Alzheimer o demenza senile. Successivamente è previsto lo stage retribuito con un’indennità oraria, e infine il corso si conclude con un modulo specifico sulla ricerca lavoro.

Anche Matenin, 40 anni, dalla Costa d’Avorio, ha un po’ di esperienza acquisita assistendo sua suocera quando era stata ricoverata. “È un lavoro da scoprire”, dice. “Sono entusiasta di imparare, ma ho anche paura. Ci sono tanti pregiudizi, tanto razzismo: lo viviamo ogni giorno, sull’autobus, al supermercato, per strada. Ho paura di sbagliare e poi di essere accusata”. Blessing, nigeriana, 31 anni, è d’accordo: “Si dice che i neri rubano, che sono violenti. Ci sono persone che non vogliono essere toccate dai neri, e questo lavoro si basa proprio sul contatto. Ecco perché sono importanti queste lezioni che ci insegnano qual è il modo giusto di interagire”.

Le emozioni e la relazione sono concetti centrali: “La cura è alla base di questo lavoro: puoi avere tutte le tecniche di questo mondo, ma se non c’è la relazione manca tutto”, spiega Antonello Mazzuca. “Le complessità sono tante: in queste lezioni affrontiamo anche dei temi tabù. Ad esempio, se decidi di fare questo mestiere, sai che dovrai toccare le parti intime di un’altra persona. Non tutti all’inizio sono pronti a farlo: ecco perché cerchiamo di abbattere i pregiudizi e spiegare che siamo professionisti, fa parte del nostro lavoro”.

Questo è il primo corso per assistenti familiari ideato e strutturato direttamente dal team del progetto SAI insieme ad ASP Città di Bologna. “A partire dai bisogni formativi dei beneficiari presi in carico dal progetto, la mia équipe si occupa di scegliere quali corsi di formazione proporre”, spiega Nicola Cameruccio di coop. Lai-momo, uno dei coordinatori dell’area formazione e lavoro del progetto SAI. “In questo caso le partecipanti sono tutte donne, anche se il corso era aperto a tutti: le figure maschili sono più ricercate ma più rare, per cultura c’è ancora uno stereotipo”. Finita la formazione, il team del progetto SAI aiuterà le beneficiarie a cercare un impiego, possibilmente nel settore nel quale si sono formate. “Il lavoro dell’assistente familiare può sembrare semplice, ma occorre tanta preparazione per farlo al meglio”, conclude Cameruccio. “Queste donne usciranno da questo percorso con tante competenze in più: competenze tecniche, ma soprattutto umane e relazionali”.

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